Tassazione dell’economia digitale

Negli ultimi vent’anni, l’economia mondiale ha mutato sensibilmente i propri profitti grazie, in primis, alla prepotente ascesa della tecnologia. Il mondo attuale, infatti, vive interconnesso grazie ad Internet, che ha letteralmente rivoluzionato le abitudini commerciali dei risparmiatori di tutto il mondo grazie, in primis, a due grandi appeal: comodità e risparmio, elementi che qualsiasi consumatore ricerca in via prioritaria.

Quasi l’80% dei cittadini di tutto il mondo, infatti, ha ricevuto almeno un prodotto direttamente al proprio domicilio, sfruttando uno dei tanti siti di e-commerce presenti nel web, che hanno visto lievitare ulteriormente i propri fatturati durante il lockdown. L’e-commerce, però, è solo uno dei settori che ha avuto grande successo grazie al web, dove, di fatto, buona parte del mondo industriale e dei servizi ha potuto trarre grandi benefici.

Fiscalità digitale: un tema divenuto ancor più di stringente attualità dopo l’avvento del covid

Tra questi benefici, quello più noto ed estremamente attuale riguarda l’aspetto impositivo, ovvero la fiscalità digitale. Un argomento, talvolta derubricato col semplice nome di “web tax”, che è diventato di grande interesse negli ultimi anni, ancor più di stringente attualità dopo il funesto avvento della pandemia.

Già nel 2018, infatti, la Commissione Europea aveva proposto di aggiungere all’elenco dei servizi tassabili anche i contenuti su un’interfaccia digitale come video, audio e giochi, al di là del fatto che gli stessi fossero della società fornitrice o ne avesse acquisiti i diritti, variando la soglia minima sopra la quale i redditi sono soggetti ad una tassazione: dagli attuali 50 milioni si sarebbe dovuti passare a 40.

L’aliquota da riconoscere all’erario, oltretutto, sarebbe stata innalzata dal 3 al 5%, due anni dopo l’eventuale entrata in vigore della summenzionata proposta. L’idea della Commissione Europea era quella di andare a colmare l’attuale divario tra la tassazione effettiva che colpisce le aziende tradizionali (22%) e quelle digitali (9,5%).

In attesa che l’ambito venga normato a livello europeo, alcuni paesi hanno già provveduto, in autonomia, a modificare la tassazione attinente alla sfera digitale. L’Inghilterra, che, come noto, di recente è uscita definitivamente alla Unione Europea, cerca di intercettare i proventi derivanti da operazioni effettuate, di fatto, in qualsiasi ambito del web: dai big data ai social network, passando per le piattaforme telematiche ed i portali di e-commerce.

Unione Europea, Gran Bretagna, Francia e Italia: non mancano leggi o proposte in ambito “web tax”

La digital tax britannica colpisce quelle aziende che i cui ricavi raggiungano almeno i 500 milioni di sterline, di cui almeno 25 milioni derivino da transazioni relative alla partecipazione di un cittadino residente in Gran Bretagna, mentre sotto la summenzionata somma di 25 milioni non è prevista alcun tipo di tassazione.

Negli ultimi mesi, anche la Francia ha annunciato, a più riprese, la possibilità di introdurre una propria web tax, con lo scopo di generare oltre 500 milioni di nuove entrate per il fisco francese. La prima nazione, però, che ha parlato apertamente di web tax, è stata, sorprendentemente, l’Italia.

Già nella Legge di Bilancio del 2018, infatti, era stata approvata una norma in tal senso, che non è mai entrata in vigore a causa della mancanza dei relativi decreti attuativi. Tale norma è stata rivista nella Legge di Bilancio del 2019, restando anch’essa inoperativa allo stato attuale.

La “web tax italiana” colpirebbe, qualora entrasse in vigore, quei soggetti che nel corso di un anno solare facessero registrare ricavi non inferiori ai 750 milioni di €uro (generati su scala globale e non solo in Italia), di cui almeno 5,5 milioni derivanti da servizi digitali offerti nel nostro paese.

In altre parole, senza effettuare alcuna distinzione tra società con sede in Italia o all’estero, si pone come obiettivo la tassazione dei ricavi derivanti sia dai beni che dai servizi venduti dalle piattaforme, oltre al trasferimento ad altri soggetti dei cosiddetti big data.